Halina Birenbaum
Vita come speranza
Life as hope – Italian fragment
Translated by Angela Olivia
Halina
Birenbaum, Holocaust survivor, a poet and a writer
Sono nata a Varsavia, nel Settembre del 1939 stavo per compiere 10 anni e mi avviavo al 3° anno della scuola elementare. I miei genitori erano affettuosi, un sacco di parenti. La mia famiglia era piuttosto povera. Marek, mio fratello, più grande di me di undici anni studiava medicina, mentre Hilek, più grande di me di sette anni studiava in una scuola tecnica. Mio padre era rappresentante di commercio; mia madre, si occupava della casa e contribuiva all'economia della famiglia guadagnando qualcosa con lavori all'uncinetto.
Il primo settembre del 1939 scoppiò la guerra. Il cielo su Varsavia era coperto da squadriglie di aerei della Masserschmitt che spargevano distruzione lanciando bombe e le case crollavano seppellendo migliaia di persone. Nel giorno della festa ebrea Yon Kippur, anche la nostra strada cominciò a bruciare. Uscimmo di corsa dal nostro appartamento in fiamme afferrando tutto ciò che potevamo portare con noi. Ci rifugiammo in una cantina. Era terribilmente affollata, maleodorante. Io guardai gli adulti, lessi sui loro volti, mi accorsi rapidamente che il mondo stava crollando attorno a noi. Dopo tre settimane subentrò il silenzio. Fu la prima volta che vidi i tedeschi. Marciavano arrogantemente per le strade di Varsavia in rovina, come una irresistibile cortina di morte. Troviamo una stanza nell'appartamento di un dentista, che era rimasto paralizzato a seguito dello shock causato dai bombardamenti. Abitammo in questo fino alla deportazione.
Mother Pola Perl Kijewska Grynsztejn from Zelechow
L'orrore cresceva, le malattie e la fame dilagavano comunque. Nel novembre del 1940 i tedeschi ci rinchiusero in un ghetto. Un muro alto ci separava dalla zona ariana della città. Io continuavo a studiare sotto la guida di mio fratello Marek. Lo facevamo come diversivo alla crudele realtà e nella speranza di sopravvivere. Leggevo moltissimo per sfuggire all'orrore elle continue notizie delle esecuzioni degli ebrei nelle camere a gas, ad Auschwitz. Il posto più terribile di tutti. Avevo undici anni, quando cominciai a scrivere di ciò che accadeva intorno a noi e della mia incapacità di comprendere. Nel Ghetto trascorremmo due anni terribili.
Nel luglio del 1942, manifesti murali annunciavano che tutti gli ebrei sarebbero stati deportati per lavorare all'est. Solo pochi avrebbero potuto restare nel Ghetto quelli che occorrevano per confezionare le uniformi e gli stivali per l'esercito tedesco parole come attacco, azione, irruzione, posti di blocco, deportazione, vagoni ferroviari, Umschlagplatz (i luoghi dove venivano caricati per i campi di sterminio erano diventate la nostra libertà non facevo domande tutto poteva essere percepito nell'aria ad ogni respiro di morte e paura persine i bambini piccoli capivano la necessità del silenzio la necessità di seppellire le loro esistenze sotto una coltre di buio).
Indossammo gli abiti e le scarpe migliori salutammo i nostri vicini, ignari che quello era una addio. Ogni giorno le strade del Ghetto venivano bloccate migliaia di ebrei venivano sospinti verso l'Umschlagplatz. I tedeschi irrompevano in tutti gli edifici, scovavano meticolosamente anche i nascondigli meglio occultati, perlustravano tutti gli angoli delle cantine e delle soffitte.
Le strade si vuotavano, i lastricati si macchiavano di sangue gli edifici spettrali furono abbandonati, vi restavano solo oggetti sparsi ovunque, lettere, foto, piume che svolazzavano ovunque dai cuscini e dalle coperte scaraventate durante le ricerche. I fischi delle locomotive come coltelli fendevano il mio cuore: era li che si doveva andare, quello era ciò che ci toccava il terribile capolinea, la fine di tutto! Mio padre trovò lavoro in un laboratorio di calzature, grazie ad un nostro parente infatti non avevamo soldi da offrire. Ottenne così un certificato che tutelava anche. Marek era all'ospedale, che funzionava ancora per creare l'illusione che non tutti sarebbero stati deportati. Helik fu messo a lavorare al Umschlagplatz. Gli fu data una targhetta di metallo che dimostrava che era al lavoro e pertanto non doveva essere deportato.
Doveva rimuovere i corpi di coloro che venivano sparati o picchiati a morte mentre venivano trascinati con la forza sui carri bestiame. Io stavo accovacciata contro mia madre nei nascondigli super affollati. La calma di mia madre, il suo autocontrollo, la sua ostinata voglia di vivere mi consentirono di maturare rapidamente e sviluppare il senso del pericolo e l'intuizione grazie a tutto ciò ho potuto compiere il mio inimmaginabile viaggio, attraverso la morte universale - verso la vita.
Warsaw,
Muranowska Street
Un giorno, al tramonto eravamo scesi dalla soffitta per prendere un po' d'aria fresca. Mai prima di allora cerano state a così tarda ora. Mio padre era appena tornato dalla bottega, così anche Hilek dopo una giornata intera ali'Umschlagplatz. Eravamo insieme, esausti dopo un giorno lungo un'eternità all'improvviso apparvero dei carri da cui saltarono fuori i tedeschi. Il loro urlo: "Halt!" noi quattro diventammo la prima fila della colonna che avanzava costituita dalla gente che torna va dal lavoro. Mia madre ci tranquillizzo dicendoci che ci conducevano in un campo di lavoro agricoli.
10 dovevo solo dire che avevo diciassette anni. Mi pizzicò le guance perché sembrassero grosse ( a riprova della ma salute) e mi sollevò le spalline del giacchino in modo che sembrassi più alta. Ci condussero ali'Umschlagplatz. Migliaia di ebrei catturati durante 10 giorno spingevano attraverso la folla ammassati, grida tutto intornono cercavano disperatamente un nascodiglio, acqua; cercavano i bambini smarriti e i parenti perché almeno le famiglia restassero insieme nello stesso carro. Improvvisamente i tedeschi tirarono fuori un fucile automatico e lo montarono in mezzo alla piazza, mirando sulla folla. Scese un silenzio di morte come se quello fosse l'ultimo istante della nostra vita....i abbracciammo e ci guardammo negli occhi, come se stessimo per separarci per sempre. Hilek avrebbe potuto andarsene perché cera bisogno di lui per liberare la piazza dai corpi, ma rimase con noi. Mio padre ci abbraccio forte. Mia madre mi guardò amorevolmente e disse: "Tutti dobbiamo morire primo o poi - noi moriremo insieme, non avere paura non sarà terribile." Io avevo superato tutte le paure, persine la morte sembrava cosa da niente, paragonata alla forza del nostro sentimento di umanità.
Il fischio di un treno fendè l'aria. Ci percossero con fucili, manganelli e bastoni. Sparavano sulla folla impazzita che veniva sospinta nei carri bestiame: gendarmi tedeschi, uomini del SS, poliziotti polacchi ed ebrei. Tutt'a un tratto un gruppo di poliziotti circondò mio padre. Gli saltarono a dosso con bastoni da ogni direzione. Cercò di protegersi con le mani, ma lo atterrarono, colpendolo sulla schiena e così nell'onda umana - per sempre. Questa è l'ultima immagine di mio padre che è rimasta ne miei occhi per tutta la vita e non ho nemmeno una sua foto.
Hilek ci nascose in un canale della fogna dove quasi soffocammo. Non avevano ancora rimosso i cadaveri. Fortunatamente ben presto non ci fu più spazio sui carri bestiame e cosi gruppo di ebrei fu rinchiuso nel comando in polizia che si trovava nella piazza. Noi avremmo dovuto aspettare un altro treno il mattino seguente. Durante la notte mia madre riuscì a corrompere un poliziotto che acconsenti a liberarci in cambio della sua fede due chili di riso e l'abito di mio padre che era rimasto nella soffitta, il nostro nascondiglio. Più tosto economico! Il prezzo standard per la libreazione dal'Umschlgaplatz era di 10.000 procapite.
Nell'inverno ebbero fine le rappresaglie. Hilek si sposò con Hela. Si diffuse la notizia che i tedeschi avrebbero liquidato il ghetto nella primavera del 1943. Varsavia sarebbe diventata finalmente Judenfrei (epurata dagli ebrei). Gli ebrei sopravvissuti cominciarono in gran fretta a costruire bunkers sotterranei nella speranza che dopo la sconfitta dei tedeschi a Stalingrado la guerra non sarebbe durata a lungo. I bunkers furono dotati di cuccette, di viveri, acqua, ventilatori e mazze di ferro per forzare le porte dei carri. Armi e veleno erano sistemati qui e là, solo per non essere inviati ai campi di sterminio.
Nell'aprile 1943, ebbe inizio la rivolta degli ebrei e la liquidazione del ghetto di Varsavia. Noi ci nascondemmo in un bunker. I tedeschi davano alle fiamme una dopo l'altra le casa e le strade. La gente soffocava per il fumo o bruciavano vivi. Morivamo di fame. Ad intervalli di ore mia madre divideva una zolletta di zucchero o un cucchiaino di marmellata e un sorso d'acqua ciascuno. Il fumo stava penetrando nel bunker. Molta gente stramazzava rantolando. Sopra di noi infuriava la battaglia, si sparava indiscriminatamente. I più forti fra di noi bagnavano gli asciugamani con l'acqua e li agitavano per creare una certa illusione di ventilazione.
Cominciammo a mettere in comune anche le ultime gocce di medicinali. Ad un passo dalla morte non si ha bisogno di grandi dosi, solo il lumicino della vita deve essere alimentato fino a quando anch'esso non si esaurisce. Mia madre mi tirò su per il braccio: - Vestiti, ci hanno scoperto! Per la seconda volta l'Umschlagplatz. Io mi stringevo a mia madre disperatamente perché non volevo separarmi da lei. Il breve tragitto dall'uscita dell'edificio al treno, calpestando cadaveri, durò una vita. Entrammo in un vagone. Non c'era posto per le gambe, per proteggermi dalla folla che spingeva ed evitare di essere schiacciati. Gli uomini delle SS picchiavano con i fucili le persone che ingombravano le porte dei carri, finché esse cadevano e lasciavano posto ai prossimi.
Halina with members of Kibbutz "Shichrur" ("Freedom") in a remembrance
assembly near the bunker of Mordechai Anilewicz, April 1946
Alla fine le porte furono chiuse e sbarrate dall'esterno. I più forti tapparono con i loro corpi i finestrini del vagone per evitare gli spifferi. La gente litigava per un po' di spazio, discutevano, si calpestavano a vicenda. Bottiglie di acqua, spesso lanciate dai polacchi che si trovavano nei pressi dei binari venivano strappate da una mano all'altra, persine dalle bocche -finchéé il più forte se ne impossessava. Al di sopra di questa massa di gente, nelle braccia di mia madre che mi sorreggeva, io fissavo disperata la terrificante bottiglia che lei teneva in tasca - un liquido si ma che non si poteva bere!! Mia madre continuava a rassicurarmi dicendomi che stavamo andando da qualche parte per lavorare. Io le ero grata per tutte le bugie semplicemente perché non volevo sentir parlare di campi di sterminio. Caddi.
Altri caddero sopra di me. Io annegai nel buio. Non sentivo più niente. Improvvisamente qualcuno mi cadde sulla faccia, sul naso. Non riuscivo a respirare. Cominciai a dimenarmi con una forza sovrumana finché emersi da quella soffocante massa di carne umana e mi liberai delle scarpe che mi facevano sanguinare i piedi. Quasi mi strappai completamente i vestiti di dosso e - al di sopra della massa di moribondi e di morti - raggiunsi il finestrino e misi fuori la testa. La canna di un fucile di un SS che stava sugli scalini del carro mi toccò la gola.
Il treno si fermò a Lublin. Era notte, pioveva. Spari e urla: Rauss! Fuori! Avanzavamo in una enorme colonna di gente affondando nel fango. Avevo voglia di leccare il fango, tanta era la sete. Avevo addosso solo un cappotto da uomo che avevo trovato nel vagone buio. Ma ero con mia madre, mio fratello, mia cognata e mia cugina incredibilmente non ci eravamo persi nella folla che spingeva. Appoggiandomi a Hilek affondavamo a piedi nudi nel fango. I tedeschi colpivamo a morte tutti coloro che non riuscivano a camminare. Sul tragitto mia madre raccolse delle scarpe di una donna che era stata appena uccisa. Doveva sembrare che io avessi 17 anni! Hilek spezzò il tacco di una scarpa perché non riuscivo a camminare, ma non ebbe tempo di fare la stessa cosa con l'altra scarpa, poiché nel frattempo avevamo raggiunto un posto dove, a forza di incitamenti e spari, gli uomini venivano separati dalle donne.
Dicevano che i bambini e i vecchi sarebbero stati portati via. Dissi a mia madre di non seguirmi se mi avessero portata via. Lei mi guardò negli occhi e mi chiese se veramente credevo che mi avrebbe abbandonata. Hilek ci abbracciò prima che un uomo delle SS lo afferrò e lo strappò a noi per sempre. L'ultima cosa che disse fu di non appoggiarmi a mia madre perché avrei potuto farla crollare. Hilek fu ucciso nella camera a gas ad Auschwitz. Io non ho una sua foto.
Pola Perl and
her sister in Zelechow
Il vento freddo soffiava. Mia madre mi coprì col suo cappotto fra la folla nel piazzale. Mi disse che presto saremmo andati in un bagno ci avrebbero dato dei vestiti,e poi ci saremmo riscaldate e rifocillate in una baracca. Io l'ascoltavo impaziente. Un chiodo nel tacco spezzato e il tacco alto dell'altra scarpa mi stavano uccidendo. Ancora donne venivano prese dal gruppo e condotte nelle camere a gas.
Rammentando l'avvertimento di Hilek, io mi appoggiavo a mia cugina Halina; mia madre e Hela, mia cognata, camminavano dietro di me. Il dolore al piede non mi faceva sentire altro. Io pensavo solo a come sarei riuscita a fare un altro passo. All'improvviso mi ritrovai in una piccola baracca piena di vestiti, dove ci fu ordinato di toglierci tutti i vestiti e eccetto le scarpe. E poi finalmente un bagno! Mia madre aveva avuto ragione, non ci avrebbero uccise avremmo vissuto e lavorato. Avevo voglia di abbracciarla. La cercai fra le donne nude. Non entrò! Annegai in un vuoto senza fine, senza uscita e senza senso. "Mamma non c'è più" disse Hela, "ora io sono la tua mamma". Non comprendevo le sue parole. Giravo intorno alla stanza ripetendo: "mamma non c'è più, niente mamma". Ci sospinsero in un'altra stanza fredda, colpendoci sui nostri corpi nudi e bagnati, urlandoci addosso bestemmie. Lì ci buttarono dei vestiti troppo grandi otroppo piccoli - come al circo. Mi capitò di afferrare un abito nero, lungo, elegante con dei laccetti.......... Hela me lo mise addosso e lo strinse intorno alla vita per accorciarlo cosicché potessi camminare. Mentre faceva tutto ciò mi disse: " Ti prego, non guardarmi. I tuoi occhi mi fanno paura"........................ Che occhi avevo in quel momento? E chi ero io allora?
Hela dovette combattere per accaparrarsi un po' di posto per me e per lei sul pavimento della baracca affollata, e per ottenere una tazza di minestra che era insufficiente per tutte quelle prigioniere impazzite dalla fame e dalla sete. A spintoni raggiunse la pentola con la zuppa di ortiche e prese un piccolo pezzo di pane. Non ci separavamo nemmeno per un attimo. Ma in breve tempo Hela diventò sempre più magra, sempre più debole e sembrava che si dissolvesse davanti ai miei occhi. Fu così che ingaggiai una lotta per non perderla. Molte volte le davo la mia minestra quando riuscivo a prenderne una tazza. Le giuravo che non riuscivo ad ingoiarla, così lei accettava. Ricoprivo il suo corpo con il mio per proteggerla dal freddo, la proteggevo dalle sorveglianti che ci obbligavano a trasportare pesanti massi.
Hela Grynsztejn ne'e Herszberg from Bydgoszcz
Passarono molti mesi, i mesi della fame, delle malattie, delle percosse e dei lavori da schiavi, interminabili selezioni senza possibilità di lavarci o di cambiarci i vestiti. I bagni a cui talvolta i tedeschi ci conducevano potevano facilmente rivelarsi delle camere a gas e noi non sapevamo dove questo ci sarebbe capitato. Nel luglio 1943 i tedeschi dettero inizio al trasferimento delle prigioniere più sane e più forti da inviare ai campi di lavoro, poiché Majdanek era un campo di concentrazione e di sterminio. Noi non fummo scelte per la prima spedizione. Io fui scelta per la seconda ma riuscii a scappare - Hela non aveva superato questa selezione in quanto era troppo magra. Ad ogni modo fummo scelte entrambe per la terza spedizione. Annotarono tutti i nostri dati, distribuirono la minestra e poi ci chiusero nella baracca. Nel mezzo della notte i tedeschi irruppero nella baracca e, colpendoci con i fucili, urlavano e ci lanciarono addosso i cani. Ci trascinarono nella camera a gas.
All'interno sembrava una stanza da bagno. Denudate aspettammo lì per interminabili ore, in attesa della morte. Io presi la mano di Hela -"Come sarà morire? Cos'è la morte? O forse tutto ciò scomparirà improvvisamente e la guerra finirà?". Il mattino seguente scoprimmo che quella notte i tedeschi avevano finito il gas. Eravamo sopravvissute alla nostra morte. Le SS ci contarono, le sorveglianti ci diedero delle porzioni di pane che noi divorammo immediatamente, quindi ci spinsero in un treno. Di nuovo carri bestiame, ma tutti con le porte aperte e due soldati della Wehrmacht che stavano lì comodamente. I soldati ci ordinarono di sederci in file, l'una fra le gambe divaricate dell'altra. Minacciandoci di spararci ci impedivano di cambiare posizione. Il caldo di Luglio, la sete, la fame, la sensazione di punture su tutto il corpo ci impedivano di stare immobili! Una donna nella fila di dietro di me, che teneva fra le gambe la figlia adolescente, si sollevò un po' e chiese al soldato il permesso di alzarsi per un momento. Con calma il soldato di mezza età si alzò, si tolse il fucile dalla spalla e lo puntò. Lei impallidì e poi cadde sulle spalle della figlia.
Finalmente il treno arrivò ad Auschwitz. Brutalmente spinte e percorse, in colonna percorremmo di corsa la strada dalla stazione a Birkenau. Apparve un cancello con una grande scritta: "Arbeit macht frei" "II lavoro rende liberi" - F K L ((Frauenkonzentrationlager). Non uscirò mai più di qui, pensai sempre più avvilita. Scese la sera, avevamo lo stesso aspetto di tutte le altre prigioniere che qui venivano torturate. Le nostre teste furoni rasate, i nostri avambracci sinistri tatuati con numeri. Ci dettero strani abiti sdruciti con una grande croce rossa dipinta sulla schiena, e delle pesanti scarpe di legno con cui era quasi impossibile cammina re nel fango. Eravamo già state in piedi per diverse ore per l'appello davanti ad un edificio in un acquitrino mentre ci picchiavano e ci insultavano. La fame, la minuscola razione giornaliera di minestra di rape annacquata, e un piccolo pezzo di pane, le continue percorse, gli insulti verbali, la sporcizia, le pulci e malattie di ogni tipo per le quali solitamente ti conducevano alle camere a gas.
Halina, Auschwitz prisoner number 48693
L'impossibilità di lavarsi, di cambiarsi gli abiti - bagnati, sdruciti e macchiati di escrementi, l'ostilità fra le donne nelle camerate, nelle latrine e in prossimità delle pentole della minestra, un carico di lavoro oltre ogni resistenza umana. E soprattutto l'incessante odore di carne umana che bruciava. Io fui costretta a respirarla giorno e notte per circa due anni. Molte volte attraversai file di gente che veniva portata alle camere a gas mentre andavo al mio lavoro privilegiato nel comando "Kanada", fra cibo in abbondanza e abiti lasciati da coloro che erano già stati assassinati. Sul binario c'erano sempre migliaia di persone portate qui dai treni provenienti da tutta 1' Europa verso le camere a gas. Erano quasi impossibile riuscire ad attraversarle: masse di esseri umani sospinte verso le camere a gas - e noi - che camminavamo nella direzione opposta, verso Kanada per scegliere i loro oggetti personali da inviare in Germania.
Una volta, il nostro commando fu fermato da una coppia che portava in braccio un bambino. Ci chiesero semplicemente quanto era lontana la colonia ebrea, poiché il loro bambino aveva bisogno di essere allattato. Noi ci ammutolimmo. Soltanto una decina di metri li separavano dal terminale della loro vita - nel cielo, come fumo dal camino................. Nel "Kanada", il campo principale di Auschwitz, solitamente stavo fra mucchi di abiti mescolati a lettere, foto e pacchi di alimenti - e non fui più capace di parlare! Le parole avevano perso il loro senso. Mi sembrava che avessero condotto qui e avessero denudato l'intera umanità - e che il mondo non esisteva più. E dopo che noi avremmo selezionato tutto il bagaglio, avrebbero gettato anche noi alle fiamme. "Kanada", o "Keine da", nessuno qui! Hela era diventata uno scheletro, le sue guance infossate, gli occhi erano diventati grandi, le sue gambe e le sue braccia sembravano sottili come stecchini.
Io cercavo di evitare di guardarla negki occhi quando mi implorava di domandare all'inserviente un'altra porzione di minestra per lei. Non riuscivo ad obbligare me stessa a porgere la mano o a correre il rischio di essere picchiata e maltrattata per una simile richiesta. Era più facile per me darle la mia minestra. Spiegavo a lei - e a me stessa - che se mai fossimo uscite di lì avremmo avuto abbastanza da mangiare, ma nel caso contrario una tazza in più di minestra non avrebbe soddisfatto la nostra fame perenne. Hela, comunque, non aveva forza sufficiente nemmeno per ascoltare i miei "sofismi". E tutto ciò diventava improvvisamente insignificante al suono di una sirena e alle grida che ci paralizzavano: "Tutte le ebree fuori per l'appello", oppure "Le ebree non si disperdano dopo l'adunata!".
In quei momenti noi dimenticavamo la fame che devastava il nostro stomaco. Il freddo, lo stare inginocchiate per ore nel fango, con mattoni nelle mani, sotto la pioggia o sotto la neve, spesso a piedi nudi perché ci avevano rubato le scarpe, o perché i tedeschi ci avevano ordinato di togliercele come punizione per offese immaginarie - tutto questo non aveva importanza. L'unica cosa che importava era aspettare il verdetto - un movimento della mano di uno dei nostri carcerieri tedeschi: verso sinistra - a morte, oppure verso destra - vivi, e in quest'ultimo caso - ulteriori sofferenze nel campo. Accadde in una bella giornata di autunno. Io camminavo dietro Hela verso il piazzale davanti ai bagni. Eravamo disposte in fila, nude.
A coloro che erano malate, coloro che erano pelle e ossa, deboli, o semplicemente a quelle che a loro non piacevano per un qualsiasi motivo veniva ordinato di spostarsi verso sinistra. Io non avevo ancora un aspetto troppo malandato, ma tremavo per Hela; lei non aveva nessuna possibilità. Mentre ci avvicinavamo agli uomini delle SS, io mi avvicinavo sempre più a lei, cercando di nasconderla con il mio corpo. Riuscivo appena a respirare per la tensione emotiva. Mengele alzò la mano e indicò Hela verso sinistra. Con tutte le mie forze la tenni stretta a me. "Sono solo esseri umani - mi torturava la mente - non sono esseri sovrannaturali, potrebbero dire "sì", e Hela sarebbe viva! Infatti ciò fa parte delle facoltà umane!" Le superiore si lanciarono su di me, strappandomi Hela. "Chi è lei per te!" - una domanda a freddo che tuonava dal Unterscharfuhrer Taube. "E' mia madre, mia sorella, mia cognata, io non posso vivere senza di lei", io parlavo con trasporto, come ad un essere umano.
Il padrone della vita e della morte semplicemente decise che io andassi con lei. Il supervisore obbedientemente annotò il mio numero e quello di Hela sulla lista di quelle destinate alla camera a gas. Ma non permisi loro di spostarmi dal posto in cui mi ero barricata e continuai a stringere Hela fra le mie braccia. Non morirò ora, in questa giornata radiosa, dissi a me stessa - e non ritornerò senza di lei. Sentivo in me tutta la forza della mia vita. Il comandante del campo, Hoessler, che stava di fronte a noi fra un gruppo di ufficiali che osservavano la selezione come fosse uno spettacolo teatrale, mi fece segno con il dito di avvicinarmi.
- "Taci!" - egli interruppe le mie suppliche, "sse no, andrai di là" - indicando la fiamma dal fumaiolo del forno crematorio. "Ma se stai calma, libererò te e la tua Schweigerin (cognata). Gli ufficiali scoppiarono in una risata animalesca deridendo il mio incredulo: "Jaaa?!" Hoessler ordinò alle sorveglianti di cancellare i nostri numeri dalla lista delle prigioniere condannate a morte. Un potente schiaffo sulla mia faccia mi fece inginocchiare, quando, in un impulso di gratitudine mi lanciai per abbracciare Hoessler. Dopo la selezione, mostrandomi le gambe e le braccia, Hela mi disse: "Nient'altro che ossa, io non sono più viva, respiro con il tuo respiro... "Cercai di convincerla che la guerra sarebbe presto finita e che lei si sarebbe rimessa e sarebbe tornata come prima. Hela riusciva appena a trascinarsi dietro di me alle adunate e verso la sartoria nel campo. Per quanto potessi io cercavo di alleggerire la sua vita durante le numerose malattie.
Portavo di nascosto le latrine con le sue feci, poiché lei non era capace di raggiungere le porte della nostra baracca e passare attraverso la moltitudine di donne, tutte malate di dissenteria. Lì sulle porte della baracca, fra centinaia di queste donne malate, le inservienti consentivano a gruppi di 10-15 di loro di andare sotto sorveglianza nelle latrine abbastanza lontane che erano sempre affollate. Liberarsi nelle tazze per il pasto veniva punito severamente. Talvolta con la morte. Io continuai ad ignorare il pericolo di punizioni e pensavo soltanto a come vuotare la tazza velocemente, poiché Hela ne aveva bisogno continuamente. Per fortuna le guardie non mi hanno mai presa mentre trasportavo queste tazze.
The latrine in
Auschwitz
Una mattina Hela non era più in grado di scendere dal tavolaccio - la serena dell'adunata non raggiungeva più i suoi sensi. Le inservienti della baracca la portarono fuori su una barella e la misero nel fango accanto a me. Per la prima volta io ero da sola all'appello. Hela mi fissava come se mi stesse dicendo addio supplicandomi di non dimenticarla. Il suo sguardo in quel preciso momento è rimasto dentro di me per sempre! Condussero Hela con un gruppo di altre prigioniere malate al Revier, l'ospedale da campo. La sorvegliante mi promise che mi avrebbe portato con lei la prossima volta che si sarebbe recata con altre prigioniere al Revier. Da quel giorno io mi privai delle mie razioni di pane per conservale e portarle ad Hela. E alla fine ci andai. Hela giaceva in un tavolaccio in alto, sembrava un fantasma.
Il suo viso si illuminò quando si accorse di me. Non mi tolse più gli occhi di dosso, come se volesse prendere in se stessa tutto il mio essere. Lei sussurrò: "Halinka, sei venuta da me! Nemmeno guardò il pane che le avevo portato. Non aveva più bisogno di pane. Quasi immediatamente mi trascinarono fuori dal Revier. Hela era morta nel suo tavolaccio. Era stata una morte normale, non per mezzo del gas... aveva solo vent'anni.
Solitudine, alienazione, e ostilità mi circondavano. Non c'era nemmeno sufficiente aria. Dovevo spingere e litigare per ogni cosa. Treni che incessantemente portavano il loro carico di gente a morire a Birkenau e li scaricavano sulla rampa davanti al mio blocco, fiamme e fumo dalla ciminiera del crematorio, odore di carne umana che bruciava; fango ovunque, malattie, ferite infette su tutto il mio corpo, scabbia, pulci, tifo, e soprattutto selezioni - divennero la mia realtà quotidiana. Io continuavo a superare tutto ciò e in qualche maniera non mi ero ridotta ad uno scheletro.
Auschwitz,
Block 27, Upper bunk, 16 prisoners
La morte continuava ad evitarmi nonostante mi fosse così vicina. Ero riuscita a nascondere la mia malattia e la mia giovane età, motivi per i quali di norma si finiva nelle camere a gas. Io non sapevo più chi fossi e a chi appartenessi. Tutte quelle donne con le quali i tedeschi mi avevano portato qui dal ghetto di Varsavia e poi da Majdanek erano sparite ormai nel cielo con il fumo che fuoriusciva dal crematorio. Le donne con le quali condividevo il tavolaccio venivano sostituite una dopo l'altra.
Trascorsi due Natali a Birkenau. Mentre da una parte del campo candele colorate illuminavano l'albero di Natale e la banda del campo suonava canti natalizi mentre noi marciavamo verso il lavoro come pure al nostro ritorno - dall'altra parte del campo le fiamme dalla ciminiera del crematoio, dove corpi umani continuamente venivano bruciati, raggiungevano il cielo! Quando c'erano le selezioni per il tifo, il colore della
lingua delle prigioniere era la motivazione per la vita o per la morte. La vita o la morte immediata di una prigioniera veniva decisa in base al colore della sua lingua. La mia non mi aveva tradito - diventava bianca soltanto la sera, dopo la selezione.
Una febbre alta che durò due settimane, lavorare senza cibo e le violente percosse a cui venivo sottoposta dalla sorvegliante di notte non mi avevano ancora piegato. Nella selezione seguente la mia lingua mostrava ancora il suo colore rosso - che significava vita ma l'uomo delle SS che operava la selezione mi ordinò di fare un giro intorno per verificare che io riuscivo a mantenere l'equilibrio. Vedendomi girare su me stessa con velocità esagerata egli mi chiese quanti anni avevo. Al mio grido disperato: "siebzehn" (diciassette), lui disse ironicamente: "la tua faccia sembra quella di una quarantenne". Avere quarantanni significava essere troppo vecchia ad Auschwitz mentre averne tredici significava essere troppo giovani - in entrambi i casi non era permesso di continuare a vivere.
L'epidemia di tifo ben presto decimò il campo senza bisogno di selezioni. Le donne cadevano prive di sensi alle adunate, al lavoro, nell'infermeria; le baracche si vuotavano. Durante l'ultima selezione, i tedeschi fecero soltanto alcuni segni sulla lista dei prigionieri. Ma non inviarono nessuno alle camere a gas. In breve tempo dimenticammo tutto ciò dovendo fare i conti con altri incubi del campo di morte. Due settimane dopo, dopo una adunata ci ordinarono di tornare di corsa nelle baracche. Noi fummo contente
di non dover andare subito al lavoro e di poterci riprendere un po' sui tavolacci...
A quell'epoca, dopo l'epidemia di tifo, eravano rimaste solo in tre. Fruma ed io ci stringemmo insieme sotto le coperte e lei cominciò a raccontarmi di casa sua, sua madre e delle deliziose piatanze che lei preparava. All'improvviso il caos irruppe nella baracca. Cominciarono a chiamare numeri. Immerse nei ricordi felici non facemmo caso a tutto ciò. Un numero ripetuto con furia risuonò come un tuono: Era quello di Fruma!!! Lei interruppe la frase a metà e saltò giù dal tavolaccio. Il calore del suo corpo era rimasto sotto le coperte e la sua voce risuonava ancora nelle mie orecchie... Tutte le donne prelevate per andare a morire dovevano spogliarsi nude sulla porta della baracca. Avvolte in coperte scure e ruvide venivano condotte alle camere a gas. Fruma era già sopravvissuta al tifo nell' Aussenkomando - commando esterno, ma la sua lingua non ottenne l'approvazione degli "specialisti tedeschi".
Fruma aveva solo sedici anni. Una sorvegliante polacca, Stasia, una volta mi permise di sfuggire ad una selezione durante la quale le prigioniere dovettero sfilare all'aperto nude, scalze nel gelo davanti ad un "tribunale" delle SS. Quando Hela era ancora viva, Stasia talvolta mi versava in bocca ancora un po' di minestra senza che io glielo avessi chiesto. In occasione del Yom Kippur Day Stasia assegnava solo alle prigioniere non ebree le pulizie della baracca. Alla sera dopo che noi tornavamo dal lavoro accendeva una candela sul tavolaccio più alto di fronte alla porta, e ci chiedeva di non spargerci per la baracca, ma di stare in cerchio e pregare in silenzio, ognuna a modo suo, che sopravvivessimo fino alla liberazione. Questa è stata una esperienza indimenticabile.
Alwira, una sorvegliante del Kartofelkomando (il comando delle patate, vicino alla rampa degli Ebrei) la cui madre era ebrea e il cui padre era tedesco, e che era stata inviata ad Auschwitz per questo motivo - mi assegnò dopo "Kanada" ad un lavoro più leggero, sbucciare i crauti in una camera riscaldata. Lì potevamo anche mangiare dei crauti e delle rape. Non sarei sopravvissuta a trasportare le pesanti casse di patate nelle cunette, nei fossi e nel terreno fangoso.
Nell' autunno del 1944, i trasferimenti nelle camere a gas terminarono. Quasi non c'erano più ebrei in Europa. Le loro ceneri erano state sparse qui; i loro effetti personali selezionati e inviati in Germania. L'armata sovietica si avvicinava. I tedeschi demolirono le camere a gas e i forni crematoi per cancellare le tracce dei loro crimini. Inviarono molti prigionieri in altri campi di morte, la maggior parte in Germania. Aveva inizio così la fine del regno di Auschwitz. Se non ci avessero uccise prima di andar via, come di solito facevano, noi saremmo state liberate presto! Il primo gennaio 1945 - il giorno di Capodanno - non ci inviarono al lavoro. C'era il sole e nevicava. Mi avvicinai al filo spinato tra il nostro campo e un altro campo femminile, cosa che ci era consentita, per comunicare ad una amica là come la mia situazione fosse migliorata e cominciai a chiamarla. La sentinella sulla torretta sparò verso di me!
Un dolore tremendo devastava il palmo della mia mano. Avrei voluto strapparmelami assalì un pensiero: "Ora mi ha ucciso, ad un passo dalla liberazione, dopo più di cinque anni di sofferenza e di morte intorno a me?! Non mi lascerò sfuggire la vita! Non morirò!" Strinsi i pugni ed i denti. Il proiettile aveva trapassato il braccio sfiorando il cuore e conficcandosi tra la spina dorsale e il polmone. La mia mano sinistra era immobile. Non c'erano più le camere a gas ma c'era un medico delle SS che inviava le persone gravemente malate ai tavolacci finché morivano. "Ora verrà e mi finirà", pensai.
Ciò nonostante egli si interessò al mio caso. Ordinò di portarmi all'ospedale nel campo maschile, per rimuovere il proiettile Nella piccola baracca che fungeva da ospedale un giovane medico, un ebreo polacco, mi ricevette. Si mostrò interessato alla mia sofferenza e fu molto gentile con me. Mi incoraggiò molto perché ero scampata alla morte. Mi chiese dettagli dell'incidente, di dove fossi e per quanto tempo ero rimasta nel campo. Tali domande erano tipiche al campo, la gente cercava ogni volta i suoi parenti, forse qualcuno li aveva visti. La presenza di questo medico ebbe un effetto calmante su di me. Persi molto sangue ed ebbi febbre alta. Due interventi chirurgici mi aspettavano per rimuovere il proiettile dalla spalla e ricostruire il nervo radiale.
Miriam Prajsowa from Staszow.
After I lost Hela, Miriam Prajs and her daughter, who was one year my senior,
took me in their care.
Qui? Ad Auschwitz? Un medico che era prigioniero rimosse il proiettile senza anestesia e, il nervo non poteva essere ricostruito poiché la mia mano era ricoperta di pustole. Tutto ciò si rivelò una fortuna, visto che dopo la liberazione, quando tornai ad alimentarmi normalmente, la mano riprese il movimento da sola. La sera del 18 gennaio 1945 i tedeschi ci fecero marciare in una grande colonna fuori dal campo femminile B2B a Birkenau. C'erano falò nella neve in cui essi bruciavano i documenti dei loro crimini - non più gente! I tedeschi ci trascinarono per giorni e notti. Durante il percorso mangiavamo e bevevamo solo neve. Mentre mi piegavo per cogliere una manciata di neve quasi caddi per terra. Alwira, la sorvegliante, mi prese sulle sue spalle.
I tedeschi uccidevano chi restava fuori dalla colonna in marcia. La strada era cosparsa di corpi. Quindi ci caricarono in carri bestiame senza tetto. Il freddo e il vento gelido sferzava i nostri corpi come se fossero fruste. Alla fine arrivammo a Ravensbruck. Ci chiusero in una caserma punitiva con le criminali tedesche. Ci davano una piccola porzione di minestra o di pane, e non tutti i giorni. Talvolta io strisciavo fuori e mi lavavo nella neve che si scioglieva sotto il pluviale. Dopo due settimane ci condussero marciando sotto scorta di nuovo verso un treno. Questa volta era un treno passeggeri ed era persine riscaldato. Ma le pulci al caldo si risvegliavano e ci molestavano ancora più di prima. Ero seduta al finestrino e guardavo la campagna tedesca, le città, i villaggi. Da qui erano venuti per ucciderci tutti, per bruciare e portarci via ogni cosa. Le loro mamme, le mogli i bambini vivevano in queste belle case. Avrei voluto andare lì e raccontare tutto ciò che avevano fatto.
Brother,
Dr. Marek Balin, after liberation
Arrivammo all'ultimo campo, Neustadt-Glewe. Per i primi dieci giorni non ci dettero cibo, in seguito ci davano piccole porzioni di una minestra insipida e un filone di pane per dieci donne affamate. Noi misuravamo le porzioni di pane con un laccio. All'interno il pane era ammuffito... Io dovevo nascondere agli occhi delle SS la mia mano ferita.
La nascosi nella enorme manica di un cappotto che un medico mi aveva dato prima di lasciare Auschwitz. Il 3 maggio 1945, i tedeschi in abiti civili salirono su un camion, spararono a salve nella folla che si ammassava al deposito alimentare - e andarono via.
I cancelli del campo furono aperti. Non riuscii a provare nessuna gioia per la libertà. Sembravo una vecchia rinsecchita. Tutta la sofferenza e la nostalgia di tutti quegli anni mi assalirono allora con una forza immane. Ma sono sopravvissuta e testimonierò per sempre questo terribile passato perché non sia mai dimenticato e non si ripeta mai più.
Notes:
1) The trap on Mila Street in Warsaw. In September 1942 on Rosh Hashanah (Jewish New Year's Day), already after they had deported the majority of the Warsaw Jews to Treblinka death camp, the Germans announced that they completed the deportations, and that all Jews who remained in the Ghetto should at once gather on Mila Street and on several adjacent streets, such as Niska, Ostrowska and Krochmalna. There, a selection would be done. Those Jews who had work certificates would be allowed to stay in the Ghetto and no more deportations would be made. (Earlier, many Jews were laid-off from their work anyway.) Huge crowds of Jews filled these narrow, impoverished streets. Once they all came there, strong and cruel German patrols encircled and closed these streets thus creating a trap with no exits. The Germans made selections and unleashed a hunt for the Jews still in hiding. The elderly and the children with their parents were pulled from the crowd, formed into columns and dragged along to Umschlag from where they were deported to Treblinka. Approximately 100,000 Jews were rounded up in these selections and sent to their deaths. No human words can describe the tragedy of those days of Mila Street Trap. After two weeks, the German military outposts were dismantled. The Ghetto was reduced but to several streets and converted into one big labour camp full of workshops and placowka's. In May 1943, after the Uprising, the Warsaw Ghetto was completely and finally liquidated.
2) My book in Polish entitled "Nadzieja umiera ostatnia" ("Hope is the last to die") and its two editions in English contain a more complete account of my years during the Holocaust:
1. Halina Birenbaum, Nadzieja umiera ostatnia. Panstwowe Muzeum Auschwitz-Birkenau, Oswiecim, 2001. 276 pp. ISBN 83-85047-99-9
2. Halina Birenbaum, Hope is the last to die. Publishing House of the State Museum in Oswiecim, 1994. ISBN 83-85047-11-5
3. Halina Birenbaum, Hope is the last to die. A coming of Age under Nazi Terror. A classic of Holocaust expanded with a new postscript. M.E. Sharpe Armonk, New York, London, 1996
The Birenbaum family, perished in Treblinka, mother Rozia ne'e Okuniew, father Biniamin Birenbaum from Lowicz and Dow (Bolek) standing to the left side. Chaim, the only survivor, stands to the right side
Last updated January 22nd, 2007